Buongiorno lettori,
oggi vi voglio parlare di un libro che ho letto per questa particolare di oggi, infatti, il 27 Gennaio è noto comunemente come GIORNATA DELLA MEMORIA.
Ogni anno, fin da quando avevamo la pagina facebook, dedichiamo un momento a questa giornata, ma quest’anno con i mille impegni, tra studio e lavoro e tante altre cose da fare, siamo riuscite solamente a leggere questo libro.
Il romanzo di cui vi andrò a parlare tra poco, è stato scritto un paio di anni fa e s’intitola Avevano spento anche la luna scritto da Ruta Sepetys edito da Garzanti.
Che ne dite di continuare la lettura scoprendo qualcosa in più sul libro di oggi?
Siete pronti? Allora andiamo…
Titolo: Avevano spento anche la luna
Autore: Ruta Sepetys
Editore: Garzanti
Genere: Narrativa
Serie: No
Pagine: 300
Data di uscita: 6 settembre 2012
Finale: Autoconclusivo
Lina ha appena compiuto quindici anni quando scopre che basta una notte, una sola, per cambiare il corso di tutta una vita. Quando arrivano quegli uomini e la costringono ad abbandonare tutto. E a ricordarle chi è, chi era, le rimangono soltanto una camicia da notte, qualche disegno e la sua innocenza. È il 14 giugno del 1941 quando la polizia sovietica irrompe con violenza in casa sua, in Lituania. Lina, figlia del rettore dell’università, è sulla lista nera, insieme alle famiglie di molti altri scrittori, professori, dottori. Sono colpevoli di un solo reato, quello di esistere. Verrà deportata. Insieme alla madre e al fratellino viene ammassata con centinaia di persone su un treno e inizia un viaggio senza ritorno tra le steppe russe. Settimane di fame e di sete. Fino all’arrivo in Siberia, in un campo di lavoro dove tutto è grigio, dove regna il buio, dove il freddo uccide, sussurrando. E dove non resta niente, se non la polvere della terra che i deportati sono costretti a scavare, giorno dopo giorno. Ma c’è qualcosa che non possono togliere a Lina. La sua dignità. La sua forza. La luce nei suoi occhi. E il suo coraggio. Quando non è costretta a lavorare, Lina disegna. Documenta tutto. Deve riuscire a far giungere i disegni al campo di prigionia del padre. E l’unico modo, se c’è, per salvarsi. Per gridare che sono ancora vivi.
Oggi, come penso noi tutti sappiamo bene, è la giornata della memoria per le vittime della Shoah, per tutti coloro che sono morti.
E’ una giornata per ricordare è come si dice di solito: “per non dimenticare, per fare in modo che ciò che è successo non succeda mai più”.
Quest’anno, come l’anno appena passato, è un’anno difficile, difatti stiamo vivendo situazioni ed esperienze molto strane e al di fuori dall’ordinario, che mettono a dura prova tutti noi.
Quando mi guardo intorno, non solo oggi e non solo quest’anno, dico che non siamo ancora riusciti a sconfiggerlo: il razzismo, l’odio e anche l’antisemitismo. Fanno ancora parte del nostro quotidiano e se penso che sono passati più di ottant’anni da quando questo ha portato a una situazione drastica penso anche che, dopo tutto questo tempo non sia ancora avverata la frase che ogni anno ripetiamo: “[…..] per fare in modo che non succeda mai più”.
Ma andiamo a parlare di questo romanzo che, rispetto alle altre storie che ci sono giunte fino a noi non parla del campo di concentramento di Auschwitz – o campi simili- ma ci narra le vicende di ciò che accadeva in Russia e nei paesi limitrofi a quel tempo.
Per la prima volta, dopo anni che leggo romanzi tratti da storie vere e vissute in quel delicato periodo, ho letto un libro che trattava sì, lo stesso argomento ma ambientato in luoghi che non avevo sentito parlare neanche sui banchi di scuola.
La nostra storia ci racconta le vicende di Lina, appena quindicenne che, il 14 giugno del 1941 viene costretta a lasciare tutto ciò che conosceva e partire insieme alla sua famiglia.
Qui, proprio quella notte, Lina capisce che un istante può cambiare il corso di tutta una vita!
Lina abita in Lituania a Kaunas è il suo più grande sogno è quello di frequentare un corso per imparare a disegnare come il suo pittore preferito, Edvard Munch.
Quella fatidica sera Lina sta scrivendo una lettera a sua cugina quando degli agenti della polizia segreta sovietica, L’NKVD, arrestano lei, sua madre e suo fratello Jonas costringendoli a salire su un camion, manca solamente il padre – rettore dell’università- che non era con loro nel momento dell’arresto.
Lina da adesso in poi ci comincia a raccontare il suo viaggio, con tanto di giorni, ci racconta cosa significa viaggiare a bordo dei treni di bestiame e, la sua continua ricerca, proprio nei primi giorni di viaggio del padre che non si sa dov’è stato portato. E, inoltre, ci narra anche l’arrivo nel primo campo di lavoro sui monti a Ltaj dove Lina resterà per quasi un anno. Un anno di stenti, di lotte per un pò di cibo in più, dei lavori forzati che sono costretti a svolgere e delle persone che incontrerà sul suo cammino.
Qui, in questo campo, Lina incontrerà Andrius Arvydas, un ragazzo del quale a poco a poco s’innamorerà.
Nel campo la vita non è per niente facile e, tramite Lina l’autrice c’è lo racconta con uno stile semplice, ma che colpisce dritto al cuore.
Le persone riescono a sopravvivere attaccandosi ai ricordi, alle speranze per un futuro diverso e all’amore; all’amore per la patria, per la famiglia, per i figli e per tutto ciò che hanno lasciato dietro di sè. Ed è proprio quello che fanno Lina e la sua famiglia, loro infatti riescono a trovare conforto nelle piccole cose, come festeggiare il Natale e altre piccole ricorrenze. Inoltre cercano di restare uniti per cercare di trovare il padre.
Lina sogna e, grazie all’arte disegna e prende appunti su ciò che la circonda, spera in un domani in cui sarà libera e riunita con tutta la sua famiglia, ma all’improvviso le cose cambiano.
Lei, Jonas e la madre Elena sono costretti ad abbandonare questo campo di lavoro e vengo deportati a Trofimovsk, sulle sponde del Mar Glaciale Artico, in pieno territorio siberiano.
In questo posto, dove la vita è inesistente e il freddo va oltre ogni immaginazione umana la vita di Lina subisce l’ennesimo assalto.
La fragilità della vita umana viene esposta e analizzata e, chi non c’è la fa o si lascia sconfiggere, muore.
Da quel momento in poi l’esistenza di Lina diviene una lotta continua alla sopravvivenza e, quella speranza che l’aveva alimentata fino a quell’istante sembra venire meno, ma sarà proprio all’ora che qualcosa cambia.
La storia, come dicevo all’inizio della recensione, è tratta da una storia vera, ma i protagonisti sono stati ideati dall’autrice invece il contesto e i disegni – come pure le pagine del diario- appartengono a una ragazza e sono stati trovati molti decenni dopo in una scatola di latta.
Ruta Sepetys ci racconta una storia drammatica, pesante da ” digerire”, ma lo fa mantenendo un certo filo di speranza che corre nell’intero libro.
Ciò che ci descrive, i momenti di rabbia più che dovuti a parer mio, sono sempre descritti e giustificati dalle riflessioni dei nostri personaggi.
L’autrice non cerca di nascondere niente, tutti gli aspetti, sia positivi che negativi, li mette lì, nero su bianco.
Sta a noi, alla fine del libro capire il messaggio che ha cercato di trasmetterci, infatti, rispetto a molte altre storie questo libro alla fine ci lascia una morale, cioè la compassione e il perdono per quello che è successo senza però fare nessuna polemica.
Questa storia, appena l’hai finita di leggere ti lascia un vuoto nel cuore, ti tocca nel profondo e lascia dietro di sè grandi riflessioni su ciò che è capace l’animo umano e, su le vicende del passato.
Grazie a Ruta Sepetys veniamo a conoscenza di una pagina di storia che troppo a lungo è stata dimenticata e che, adesso – grazie al suo libro – è giunto finalmente il momento di conoscerlo.
E quindi che state aspettando? Correte a leggerlo!